Dice che mia mamma faceva le poste

Dice che mia mamma faceva le poste” questo è il titolo di una raccolta di miei racconti, ventisei, scritti in vari anni, forse una dozzina, disordinatamente, come capitava, spesso dopo la lettura di qualche fatto di cronaca minore o stimolato da conversazioni, faville, scambi intensi, cocenti o accesi di idee sul fertile “blog des cartographes fous” (il cui titolo dice già tutto). Altre volte mi ha stimolato e commosso lo stile narrativo e l’approccio quasi surreale ai problemi della mia amica psicologa Irene De Sanctis con cui ho scritto pure un racconto a quattro mani La vedova d’Alfonso” che vinse il concorso bandito dallo scrittore Remo Bassini sul suo ottimo e popolare blog.

Il titolo l’abbiamo combinato insieme, il mio agente letterario Giovanni Lamanna ed io, dopo aver scartato il possibile “L’uomo che andava in nessun posto”, per non dire del mio orrendo & casalingo “Psicopatologie locali” che serbavo solo per me, sul mio pc.

Fare le poste” per la maggior parte delle persone non significa nulla, non dice, non porta riferimento se non alla “posta” che è mezzo di comunicazione conosciuto o forse mucchio di lettere; per me è una forma dialettale, un torinesismo che ho imparato da ragazzino. Qui a Torino un tempo si diceva che una donna “faceva le poste” per riferirsi ad un lavoro ad ore come collaboratrice casalinga presso qualche famiglia, tuttavia in chiave pesantemente ironica si diceva talvolta, con un ghigno, che una donna “andava a fare le poste” intendendo che si prostituiva a ore nel domicilio di qualche uomo solo e bisognoso di cure sessuali.

Infatti la mamma del bambino che narra una di queste storie faceva le poste presso alcuni uomini, un mobiliere, un prete ed altri bei tipi.

Alcuni di questi racconti sono molto brevi: vi parlano, vaneggiano, si sfogano dei diseredati, poveracci, malati mentali, pìcari, visionari, ladri e truffatori di mezza tacca, o vittime di violenze familiari e sociali. Persone che vivono al margine, in una zona d’ombra, di cui si fa a meno di parlare perché sgradevole, non interessante, eccetto nel caso in cui gli emarginati diventino protagonisti di fatti di cronaca nera.

Il linguaggio è corrotto da dialettismi, neologismi uditi dal vero, per rendere più taglienti le scene inquadrate come un rapido schizzo. Ho scritto queste storie, per l’interesse e la forte simpatia che sento per un sottomondo di emarginati, di gente lesa dalla natura medesima, allontanati dalla vita sociale, dimenticati sovente dalla giustizia ed anche dalla pietà. Talvolta ho alleggerito i temi dolorosi con tono ironico o grottesco, perché alcuni dei protagonisti hanno qualcosa di strambo o buffo, a seconda del taglio dello sguardo.

Ho accompagnato molti di questi testi con una mia illustrazione, in genere in bianco e nero, non ne potevo fare a meno, e ne lego qui alcune.