Istanbul un poco la conosceva. La cosa che aveva apprezzato molto in una precedente visita era stata una cisterna sotterranea, e grandiosa, per acqua potabile, edificata forse sotto Costantino, in Sultanhamet, non lontano da Santa Sofia. E vi si recò appena arrivato, per esaudire ad un pulsione interiore fortissima. Nemmeno posò il bagaglio in albergo, saltò sul taxi all’aeroporto e si fece condurre in quel luogo, detto Yerebatan Sarayj. Ricordava soprattutto silenzi, oscurità, ombre, singolare atmosfera di mistero sotto quelle volte, tra i grandi pilastri basati in un fondo verde di acque leggermente mosse. Rinnovò la sua sorpresa: il misterioso lago aveva tuttora il suo fascino; in quelle acque ombrose si spostavano pesci quasi oltremondani, carpe, carassi iridescenti da fiume Lete. Più in là, procedendo tra i passaggi sospesi fra i piloni, ricercò, quasi con affanno la maschera, il frammento di colosso antico che giaceva sul fondo rovesciata: la gran testa femminile di una Gorgone, Medusa. La ritrovò, e fissò nei suoi strambi occhi la sua attesa, nei tratti della bocca tozza, verdastra di alghe, ficcò la sua speranza, quasi essa fosse quella di una sibilla. Non visto, dietro un pilastro, chiese implorante, giunse le mani, e attese un vaticinio da quell’avanzo del mondo classico. Si sarebbe pure inginocchiato, si sarebbe tuffato, avrebbe voluto sparire in un viaggio senza limiti, in quel regno delle ombre ove l’essenza del suo Ettore era finita: “forse non finito, piuttosto pellegrino, trasmigrante, transitorio… ” Fissava le minuscole onde, si annullava in quella sottile e disperante attesa ma niente venne, nessun fiato o segno, nessun sospiro od oracolo, solo le grida eccitate di due bambini che si stringevano alla gonna di una elegante bambinaia, palesemente inglese.
Nessuna voce – si diceva scuotendo la testa, mentre a piedi si recava all’hotel – Nessuno mi vuole parlare… nessuno… Sono matto, forse… Gli dei e gli oracoli tacciono… Li abbiamo uccisi, noi, moderni.