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Un nuovo volatile o scultura sospesa del 2010

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Materializzazione delle idee pittoriche

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ADRECC UBAC ovvero AD RECTUM AD OPACUM

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OPERE LEGGERE, MOLTO LEGGERE E COLORATE

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L’UOMO VERDE POLIMATERICO

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MADRE TERRA

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MADRE TERRA

Un ventina di anni or sono, circa all’inizio di questo secolo, cominciarono a girarmi in testa, a comparire dietro agli occhi delle immagini vaghe e delle idee relative all’antica concezione umana dei quattro elementi naturali come componenti del nostro pianeta. Mi sorse dentro il desiderio, la voglia di rappresentare, o piuttosto di alludere con forme solide, in qualche modo, a questi fondamenti così arcaici della nostra “natura”.

Terra, terra fu la prima parola che vidi scriversi dietro la mia fronte.

La Madre Terra nei primi millenni del suo ruotare e ribollire nel sistema solare.

Cominciai così a disegnare, a fare schizzi e bozzetti, a piegare, incollare carte fino a pensare, ad immaginare una sorta di mammellone magmatico spaccato, come sbocco di materia lavica sorto da una crepa della Madre Terra. Nello stesso tempo mi veniva di fantasticare i rumori immani, gli schianti degli strati geologici che si aprivano, gli sbuffi, soffi, le ventate dei gas, i getti delle sostanze minerali fuse, le lave, i loro vapori. Arrivai ad immaginare, in un secondo tempo, che forse un essere primitivo e mitico, forse un fauno, avesse udito quei rumori, quei confusi suoni e stridii e avesse voluto simularli o accompagnarli con un suo flauto di canna.

Per questo pensai di aggiungere, da infiggere nella materia, come sorte dalla crepa primitiva centrale, delle vecchie canne forate come fossero elementari, primitivi strumenti musicali.

Mi ci volle parecchio tempo per realizzare il mio progetto perché pensai alla forma base centrale della altezza di circa un metro composta essenzialmente da blocchi di polietilene espanso (ethafoam) che sagomai, tagliai con coltelli e lame; ho rivestito poi tutte le forme realizzate con carta velina incollata per chiudere i pori dell’ethafoam ed ottenere superfici parzialmente lisce da dipingere coi colori acrilici.

La massa, piuttosto grande, fu difficile da lavorare e maneggiare e rivestire. E risultò anche più pesante rispetto a quello che avevo pensato. Ma fui infine soddisfatto. Avrei voluto coronare l’opera con l’aggiunta di un aggeggio elettronico che emettesse sottili suoni particolari, direi primitivi, dalle canne fuoruscenti dal magma. Ma non l’ho fatto, per ora.

Ho esposto l’opera in alcune mostre, gallerie ed anche all’aperto, luogo per me adattissimo, appesa ad un albero nel vicino giardino di via Campana 32, in Torino, dedicato ad Eva Mameli Calvino, botanica e antifascista madre di Italo Calvino.

LO SCHIAVO DEL VAMPIRO

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Dieci anni fa, circa, all’età di anni 37, feci l’amaro bilancio della vita mia. Dopo i miei scorrevoli e brevi anni di successo universitario mi imbucai, speranzosissimo, in uno studio legale promettente e di colpo riuscii ad invaghirmi della favolosa, prestigiosa e più anziana collega De Libertis dagli occhi potenti e dalla andatura decisa.     
La sposai dopo tre mesi di fidanzamento assatanato.
Tutto bene.                                  Eccetto che, passato un anno, ero diventato una specie di schiavo della consorte, donna esigentissima e volubile, la quale, oltre a mostrarsi sovente inquieta, scontenta, mi dominava, in tutto e per tutto. La storia finì presto, non per mia volontà, ma perché la signora, in poche parole, riuscì a buttarmi fuori da casa, dalla sua vita e a imporre le mie dimissioni nello studio, di cui era socia con notevole quota.   Tuttavia non mi sentii sconfitto e negli anni seguenti, grazie alla mia abilità vocazionale riuscii ad accasarmi altre due volte con femmine prepotenti e despote e, di conseguenza, a farmi ridurre a straccio ambulante o relitto immondo.                                         Idem come sopra per il lavoro: mi prodigavo, mi rendevo disponibile, arrendevole, mi prestavo a tutti gli straordinari, portavo fiori & pacchetti: in tal modo riuscii a farmi fottere elegantemente da un celebre fiscalista, quindi dal notaio Bellamy che pubblicamente mi umiliò.                                       In circa dodici anni di vita indipendente dalla famiglia d’origine avevo maturato una serie notevole di sconfitte e conseguente demoralizzazione, vuoi depressione. Poiché sono parsimonioso e provengo da agiata famiglia, come soldi non stavo male, per fortuna, ma la parola “perdente”, che per altro detestavo, saltellava orrida dietro la mia fronte nelle notti regolarmente insonni. Dietro pietoso consiglio della mia prima moglie, che tuttavia ancora meschinamente adoravo, e talvolta adulavo, mi recai da noto psicanalista a cui versai una barca di soldi per terapia intensiva, una cosa detta microanalisi, di durata breve ma di alto costo.                                    Veneravo il dottor Ermete Peniscola, mio ottimo psicomentore, anzi mi bevevo ogni sua parola nonostante mi bombardasse di dubbi atroci, di sensi di colpa, magari suoi. Non vedevo l’ora, in quei buissimi giorni, di accucciarmi in quella nera sua poltrona e farmi sommergere di domande, talora sconce, di ipotesi stralunanti. Dopo tre mesi di aspirazioni alla liberazione dalle mie angosce, una notte mi scoppiò un insight: vidi il mio volto contratto in un ghigno vergognoso su di un corpo sgraziato con veste da giullare, tutta nera, sdrucita, dal cappuccio penzolo. Purtroppo non tardai a riconoscere in quella persona spregevole me stesso, l’altro da me, forse il mio vero io, un essere che assomigliava molto a quello di Marty Feldmann nel film “Frankestein junior” in cui mi ero piacevolmente annegato più volte. In quel momento mi apparve scolpita, ossessivamente, in testa la parola “succube... succubo.                  Avevo infine capito, ero divenuto consapevole: la mia vocazione vera, unica era quella di fare il succubo, il dominato, l’asservito, strisciare ai piedi dei forti, dei potenti e lasciarmi arrendevolmente signoreggiare.  E, vista la fenomenale rivelazione che avevo patito e vissuto, a niente di meglio avrei potuto aspirare se non di trovare non una donna dominatrice, ma un degno “padrone”, un signore d’altri tempi, magari un despota, anzi meglio, un vampiro, un vero autentico Vampiro.                                      Ed il mattino seguente, eccitatissimo, con gli occhi strabuzzati, mi presentai al mio psicodistruttore manifestando la mia decisione, se non consacrazione, alla luminosa, improvvisa vocazione, magari folle, forse anacronistica, di diventare finalmente vero
"schiavo di un vampiro"                                                            Il dottor Peniscola scrollò la testa mostrando un mesto sorriso, mormorò un incerto: “Forse che si… forse che no...”, quindi mi prescrisse un antipsicotico e benzodiazepine.             Francamente io gli feci uno sberleffo da clown, proteso in avanti, accentuando un poco la mia cifosi congenita, quindi arretrai inchinandomi più volte. Non gli pagai, certo, le ultime sette sedute, avendo deciso, per altro, di accentuare la mia parsimonia per trasformarla in fruttuosa avarizia.       Dopo giorni quattro di esaltazione, e precise consultazioni sul web e di antichi volumi nella nostra Accademia delle Scienze, ove mi trovavo più che a mio agio, tra polveri, vecchi schedari, tarli, scricchiolii di sedie e tonfi di tomi sui tavoloni di quercia, caddi in uno stato di stanchezza che aveva un poco della precedente depressione, probabilmente perché non avevo trovato alcuna indicazione su come muovermi, dove collocare la mia offerta di lavoro succube.                           A quanto pare non esistevano più vampiri, o forse non ne erano mai esistiti, non parliamo nell’attuale Transilvania ove agli antichi nobili signori si erano sostituiti famosi nonché ributtanti personaggi dell’Europa occidentale, quali speculatori edilizi, evasori fiscali, gangsters, grassatori industriali, produttori di ogni sorta di ciarpame inquinante: umana immondizia. Per cui, piuttosto sfiduciato, mi dedicai, in casa mia, ad nuove e approfondite ricerche sul web. Trovai qualche indicazione utile. A quanto pareva, nel subcontinente indiano si credeva ancora nella esistenza di vampiri, talora detti pisachas, nominati pure su quotidiani locali; si annoveravano sparizioni o rapimenti di donne attribuiti a cotesti vagabondi della notte che infestavano alcune zone del Pakistan, del Baluchistan, negli stati indiani del Kashmir, del Gujarat, e dell’Andra Pradesh. Mi stavo rincuorando.                           Chiesi udienza alla mia seconda moglie, donna assai superba e snob, che era stata varie volte in India; nella sua svagata gioventù aveva bazzicato ashrams, santoni, eremi subhimalayani, poi trovata la sua vocazione, aveva istituito, qui, scuole di yoga, corsi di rebirthing, fondato fiorenti aziende erboristiche e una lussuosa beauty farm, onde accalappiare danarose sciocchine. Essa nel vedermi si meravigliò per la mia barba incolta, il mio cipiglio ossesso e stravolto, e provò vero interesse per i miei abiti inconsueti: indossavo un consunto giaccone in pelle nera da camionista russo, su camicia e pantaloni di identico colore, in più una berretta blu di lana con nappa viola ereditata da un mio caro zio.           Mi prostrai devoto e le chiesi notizie, informazioni dei detti pisachas, se mai ne avesse udito parlare nel suo passato remoto. Essa si mise a ridere, poi mi puntò un dito e mi disse che un pisacha lo sembravo io davvero, un pisacha matto, o cretino, aggiunse. Non mi scombussolai affatto.          Insistendo seppi che nel porto di Karachi, almeno vent’anni prima aveva conosciuto un strano santone musulmano che ne parlava sovente, ne aveva visti e conosciuti a bizzeffe e insegnava, vendeva scongiuri e sortilegi per tenerli lontani. Mi bastò. Arretrai devotamente giungendo le mani e le baciai la sacra pantofola.                                           Non mi restava che partire: accumulai un piccolo bagaglio, un discreto gruzzolo, prenotai un volo e sparii verso l’Oriente, destinazione Karachi. Cercai di arrivarvi coi mezzi più economici, voli low coast fino al Bahrain ove mi imbarcai su uno scassato, enorme cargo diretto al porto di Karachi.Durante il breve viaggio mi familiarizzai con un vecchio mercante di paccottiglia indiana, certo Mafuz, da cui in cambio di quindici dollari e una bottiglia di cognac ebbi notizie di alcuni luoghi del Pakistan dove avrei potuto trovare degli eventuali cacciatori di pisacha, ma erano tutte palle.                   Sbarcai speranzoso in uno dei più grandi, orrendi, fumosi e caotici porti d’Oriente: riuscii a guadagnarmi un modesto hotel dove intrapresi una ricerca metodica di esperti sui miei eventuali, futuri padroni. Ma rimasi molto deluso, dovetti cambiare tre volte di albergo perché alle mie strane, troppo insistenti, domande i portieri o i tenutari stessi mi sbatterono fuori, anzi la terza volta il proprietario arrivò con un arcigno ufficiale di polizia che parlava benissimo inglese, il quale mi inchiodò con precise domande sui motivi reali della mia presenza in Karachi, arrischiò l’ipotesi che io fossi una spia oppure che la mia presenza in Pakistan fosse dovuta a traffici immorali o per raccogliere diffamanti notizie della vita pakistana. Mi discolpai in tutti i modi, mostrai documenti, certificato di laurea in legge, alcuni libri di studio, dissi di essere un ricercatore culturale, un appassionato del folklore locale, un ammiratore della retta fede, piansi addirittura e promisi di non interessarmi più a quelle nefande sciocchezze. Fui, per fortuna, rilasciato dopo pagamento di salata multa per turbativa della quiete pubblica.           Cambiai nuovamente albergo e tanto feci che in una stamberga presso un’appartata moschea beccai un vecchio medicone che era un’arca di scienza sui pisachas. In poche parole seppi, dietro esborso di venti sterline in oro, che gli inqualificabili esseri sono mangiatori di cadaveri, sono assai temibili e bruttissimi, si aggirano di notte e puzzano come carogne, e ne provai vero orrore. Aggiungendo denaro venni a sapere che nella provincia di Quetta avrei potuto saperne di più da un suo emerito collega, tale Jussuf, venerabile medico baluchi. Immediatamente raccolsi tutto e presi un terribile treno per Quetta, antico capoluogo del Baluchistan.                                         Là mi trovai benissimo per via dell’aria più fina, delle vestigia storiche e dell’accoglienza del distinto e vecchissimo dottor Jussuf che, in suo eremitaggio in periferia, mi fornì finalmente l’indirizzo di un esperto di pisachas, forse pisacha lui stesso, però persona decisamente stimabile e abbiente, un signorotto locale della valle di Pishin, certo Haziz Jandalahar. L’esimio dottor Jussuf versò su di me le sue occulte conoscenze dopo compenso di duecento dollari e solenne giuramento di non far mai il suo nome. Presentendo che mi avvicinavo alla mia meta, provavo forte timore, nonché una certa vergogna, tuttavia mi sentivo eccitato ed anche orgoglioso per l’avventurosa ricerca che avevo intrapreso. Queste sono le premesse.
Ora ho un vero padrone, che io chiamo il Mio Signore, l’aristocratico Haziz Jandalahar, che non è affatto schifoso, anzi odora di spezie, esso è minuto ed energico, due occhi vispi e fortissimi, veste propriamente, parla con sicurezza urdu, baluchi, inglese, tedesco e cinese ed è uomo estremamente raffinato e colto. Egli è laureato in ingegneria in Inghilterra, proprietario di moltissimi ettari di terreno coltivati e irrigati modernamente, è munifico con il popolo della sua valle, per loro è come un fertile fiume. Nutre poi gran passione per il sesso femminile, ha quattro mogli più alcune leali concubine. Oltre delle sue proprietà terriere si occupa dello studio del folklore e di archeologia.                     Per ottenere udienza da lui dovetti superare notevoli difficoltà. Fui ricevuto dopo aver atteso varie ore di fronte al mirabile e vetusto portone del suo palazzo in stile mogul, arroccato su di una cresta e collegato da un passaggio fortificato ad altro edificio, egualmente antico, sul crinale adiacente.         La prima settimana fu di passione, sudori e tormenti della psiche.                  Il Mio Signore, uomo profondissimo, mi sottopose ad un sorta d’interrogatorio estenuante che fu anche suggestiva terapia mirante all’apertura di un qualche varco occluso nella mia coscienza e, insieme, mi permettesse di scorgere fino in fondo e chiaramente vie e spazi nuovi, il mio vero destino, in una parola. Confessai tutto, mi abbandonai, mi lasciai andare completamente alla sua forza persuasiva, mi liberai.   Il grande Haziz mi rese evidente, chiarissima, inconfondibile la differenza tra il succube e il lodevole ruolo del “devoto servitore”. Mi spiegò che ero caduto nel recente passato in una forma di tragica paranoia e confusione mentale, relegò le figure dei pisachas alla credulità popolare. Mi dimostrò, invece, come il succube fosse un essere miserabile privo di volontà, mentre il sincero servitore consapevolmente devolve, con dignità, tutto il suo affetto, il suo impegno, la sua intelligenza alla causa del suo signore.    Questa è la totale donazione di sé, cioè il vero Amore.                       Fui lasciato a riflettere per un’altra settimana, trattato benissimo, in una specie di sobria cella. Non mangiai quasi nulla in quei setti giorni, bevvi tantissimo tè dolce con latte ed al termine del digiuno ero più che pronto a dedicarmi, a votarmi in toto, al Mio Signore. Il venerabile Haziz allora mi sorrise per la prima volta e mi tese una mano, quindi mi guidò lentamente verso varie eleganti stanze del suo palazzo, segrete ai più, ove raccoglie una sterminata, abbacinante collezione di pezzi archeologici, mi introdusse, poi, in un moderno e vasto laboratorio di restauro ove conobbi due valenti suoi collaboratori. Alfine mi aperse la porta della sua notevole biblioteca, arredata con armoniosi scaffali in stile Queen Anne. Qui mi invitò a sedere su di un rosso divano, e mi rivelò chiaramente quali fossero i suoi progetti per me: io accondiscesi felicissimo, nonché riconoscente di essere stato liberato ed essere tra i suoi eletti. Ora sono, non solo un devoto servitore del Mio Signore, ma pure suo stimato collaboratore e ho intrapreso un’entusiasmante carriera che mai mi sarei sognato. Di fatto si lavora preferibilmente di notte: parto con la squadra specialistica e ci rechiamo in siti archeologici, anche lontani, individuati con infinita precisione dal sapientissimo Haziz. Arrivati sul luogo si scava, e si trovano, talvolta, reperti pregevolissimi. Pratichiamo scavi clandestini, è vero, spesso con la connivenza di autorità locali, in precedenza foraggiate da mance consistenti, tuttavia ciò non mi turba minimamente perché altrimenti i detti oggetti verrebbero depredati da ben altri locali sciacalli e non dalla nostra nobile missione che poi li immette sul mercato antiquario occidentale: ciò va a giovamento del venerabile Haziz, dei valligiani beneficati da lui e della cultura internazionale. Nel mirabile laboratorio del Mio Signore si restaurano, o si reintegrano pure, i beni danneggiati; sovente se ne fanno imitazioni o copie fedelissime ad opera dei due nostri valenti artisti di Peshawar: oggetti che vengono definiti volgarmente dei “falsi”, di fatto sono indistinguibili dagli originali, quindi sono perfetti. Di recente l’impareggiabile Haziz ha ripreso un’attività straordinaria che aveva già inaugurato anni fa, prima del mio arrivo, purtroppo con scarso successo, dovuto ad una qualche imperizia dei preparatori. Cioè la creazione di mummie persiane, molto ben imitate. Qui, in effetti il compito mio è di alta responsabilità e si ricollega, in qualche modo, alle mie fantasie precedenti sui deprecabili pisachas. Ci siamo già recati tre volte, notturnamente e furtivamente, in cimiteri limitrofi per riesumare salme di giovani persone di recente sepolte. Portiamo i cadaveri, quindi, nel nostro laboratorio aggiornatissimo, ove vengono trattati con apparecchiature assai sofisticate, per l’invecchiamento dei tessuti ossei e muscolari, per renderli veramente millenari; si procede a dissezione, suture, svuotamento di visceri ad opera del sapiente medico cinese sig. Wong, già esperto di mummie mongole e fidato seguace del Mio Signore da più di trent’anni. Quindi i tecnici procedono con estrema prudenza e con cura infinita all’unzione del reperto e alla bendatura del medesimo eseguita con tele di vecchia tessitura sapientemente maturate e trattate con resine naturali. Sulla mummia finita vengono, poi, applicate lamine d’oro puro recanti scritte a sbalzo in caratteri cuneiformi dettate dal nostro Maestro. Sul capo dell'artefatto stesso viene posta maschera, del medesimo oro, mirabilmente lavorata dai nostri artisti di Peshawar che già hanno provveduto a scolpire il sarcofago in cui è deposta la mummia, in legno di cipresso stagionatissimo, adornato di rilievi ispirati all’iconografia delle dinastie achemenidi, come sempre suggeriti dal nostro mai abbastanza lodato Signore Haziz. Benché dal mondo archeologico ufficiale mai siano state reperite mummie persiane, due di queste mirabili creazioni sono già state allocate presso musei privati di collezionisti americani, a prezzo più che vantaggioso grazie, anche, alla mia discreta e devota mediazione. Ne ho avuto anch’io un tornaconto, debbo dire assai elevato, più gli amorevoli servizi di due lontane cugine del Mio Signore, che me le concesse quali mogli. Tuttavia di tutti questi vantaggi materiali ora non voglio dire. Cioè che voglio affermare essenzialmente è che da anni ormai è morto in me il mio vecchio io, disturbato, confuso da false idee, pessimo interprete di altri ruoli, perché ho realizzato la mia vocazione, ho trovato un grande Maestro e ho conosciuto la “vera e totale devozione”. Io sono morto a me stesso e, di fatto, nel mio paese si crede che io sia deceduto nel rogo di una vecchia auto presso Rawalpindi. Certificati autentici della mia morte sono stati inviati in quella che fu la mia patria che io ho giustamente rinnegato, perché corrotta, falsa e abietta. Qui, dopo molti vaneggiamenti, ho fatto pulizia, ho visto chiaro, ho trovato il maestro che solleva il cuore e conduce per mano sulla vera e retta Via.

Le mie LETTERE DA UN BUGIGATTOLO che si immergono e s’impegolano nel MAGO DI OZ

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LETTERE DA UN BUGIGATTOLO

Nel mio ultimo libro LETTERE DA UN BUGIGATTOLO edito da Golem Edizioni (a cui tengo moltissimo) il protagonista, Nino, per sfarfugliarsi da dilemmi e dubbi interiori, per chiarirsi e conciliarsi con certe sue ubbie e nevrastenie che lo disturbano parecchio prende a scrivere lettere a certi suoi mitici personaggi, compagni simbolici della sua infanzia. Così decide di spedire missive anche ai noti protagonisti del fantastico libro libro di Franz Baum, IL MAGO DI OZ…

“Cari, miei cari amici pupazzi, Uomo di latta e Spaventapasseri, creature del magnifico Franz Baum: io vi ho amato, ammirato molto, ma debbo dirvi sinceramente che tutta l’opera, il film in cui siete coprotagonisti mi mise una certa paura quando la vidi da bambino e ora vado a spiegarvi il perché. Avete presente che all’inizio della storia la casa dove la cara Dorothy abita viene risucchiata da una tromba d’aria e la ragazzina finisce in un paese davvero strano, estraneo, cioè il vostro, ove c’è una strada lastricata di piastrelle gialle!? Ebbene: quando ho visto il film la prima volta, mi sono spaventato davanti a quelle scene, ho messo la faccia nel grembo di mia madre. Non volevo più saperne di case sparite, risucchiate da tifoni, e poi di lisce strade gialle ricoperte di piastrelle quasi identiche a quelle del nostro ingresso. Avevo paura da morire di perdere la mia casa e la mia famiglia. Fu un trauma vero e proprio! Poi ho rialzato la testa, forzato dalla mamma. Vedendovi più avanti nella storia vi ho trovati molto strambi, anzi fastidiosi: mi era insopportabile che un tale, composto di pezzi di lamiera lucida, con in testa un imbuto, piangesse e temesse che le sue lacrime l’arrugginissero, e che una specie d’uomo impagliato, uno spaventapasseri o merli o corvi, fosse animato, se ne andasse in giro, invece di stare infilzato su di un palo in un campo, e temesse fiammiferi e incendi. Tutto questo insieme di personaggi, figure, facce e le loro azioni così incomprensibili, sconvolgeva il mio tentativo infantile di costruire e razionalizzare il piccolo mondo circostante, che doveva essere bello e buono, sicuro, con un papà e una mamma immortali. Per questo vi scrivo, per dirvi che mi siete stati non oggetto di odio, ma certo di stupore e paura, creature assai temibili perché partorite da una fantasia troppo ardita, inaccettabile, che mi sradicava dal mio sicuro nido. Vi dico che mi erano più comprensibili le streghe del Nord, del Sud e le scimmie volanti. Le piastrelle gialle, il Sentiero di mattoni gialli, tutti lustri, no! E quegli altri omini mezzi meccanici, i Mastichini o Munchkin, mi davano pure essi assai fastidio e tremore, li ho odiati.

Se è possibile ora consolarvi posso confessarvi di aver avuto anche una paura tremenda, negli stessi anni, quando ho visto per la prima volta, al cinema parrocchiale, il cartone animato Alice nel paese delle meraviglie di Walt Disney……………………

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Lettere da un bugigattolo: in compagnia del profeta Giona, di Oannes e di Johannes

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Nel mio ultimo romanzo “Lettere da un bugigattolo”, uscito nel marzo di quest’anno 2023 per Golem editore, il mio protagonista Nino Ferrero riflette parecchio sul suo passato ed in un tratto gli balugina tra gli occhi il profeta Giona di cui tanto aveva sentito affabulare da ragazzo. Per questo è stimolato a studiare la presenza di uomini ingoiati o divorati da mostri marini nell’antichità e scopre sul web l’esistenza di un antichissimo dio mesopotamico detto Oannes mezzo uomo e mezzo pesce; ricorda e riflette pure sulle parole evangeliche “Fuit homo missus a Deo, cui nomen erat Johannes” cioè Giovanni il Battista, detto uomo d’acqua perché è quasi sempre raffigurato coi piedi in una pozza o torrente per battezzare. Ha quindi una sorta di insight o illuminazione: la faccenda dei pesci, degli dei e dei mostri marini che ingoiano uomini e poi li risputano prende ad affascinarlo moltissimo, tanto che, buttate le acciughe in frigo che aveva appena acquistato al mercato, si pone davanti al pc e scrive:

“Caro Oannes o Giovanni o Giona o Jonas e come ti chiami,

sei una ben strana creatura della mente degli uomini! Capisco perché abbiano inventato la tua storia, ma non del tutto. Devo approfondire.

Le antiche genti avevano paura di essere mangiate dai immaginari mostri marini, anche fluviali, come dai coccodrilli, ma i pescecani li conoscevano soltanto i naviganti, i marinai, e forse gli abitanti rivieraschi.

Nella vecchia Europa, mostri giganteschi ed aggressivi non si vedevano e nemmeno, credo, nell’Asia Minore. Magari nella Cina favolosa c’erano molti draghi, più che altro prodotti da fantasie. Comunque ti voglio dire che resto affascinato perché m’è parso di capire, caro Giona profeta, che tu sei stato un traditore della tua missione: dovevi andare a Ninive a profetare ma t’è presa la strizza e hai fatto finta di niente. Così, il solito Signore ti ha punito con una terribile tempesta, e con te tutto l’equipaggio, e sapendo i marinai che avevi contravvenuto alla missione, ti hanno sbattuto in acqua, in bocca a un mostro mille volte raffigurato.

Si dice che ti fossi pentito. Magari ti sarai ravveduto ancora di più stando dentro la pancia della bestiaccia. Probabilmente a forza di dispiacerti hai emesso umori ributtanti per cui sei diventato disgustoso e il brutto mostro ti ha vomitato.

E poi sei andato a predicare. Caro Giona, lo so che tu non sei davvero un profeta ma un’umana invenzione. Sei un essere mezzo pisciforme come quel più antico dio mesopotamico Oannes, tuo predecessore, col cappello che pare una mitria da vescovo?

Ho riflettuto, sai?

In fin dei conti credo di assomigliarti un poco, di essere anch’io uno che fugge.

Sono scappato tanti anni fa dalla chiesa cattolica ed ho fatto bene, ma dentro di me devo avere ancora dei conti in sospeso: sogno il teologo Vigna col capello da vescovo che pare un bocca pescecanesca mostruosa e mi insegue, mi perseguita, e a volte mi vuole divorare. Non so dirti come, non so dirti il finale. Però in me deve nascere un consapevole distacco dai mostri che assediarono la mia cattolicissima infanzia.

Sento ormai di essere stato rigettato dal mostro ma di vivere tuttavia un’attesa simile alla tua, su di una spiaggia arida: ti ho visto raffigurato su un famoso codice miniato tedesco, ove stavi seduto sconsolato sotto una pianta di ricino con appesa sopra la testa una gran zucca, quasi spada di Damocle, pronta a caderti in testa. Parevi molto sconsolato pur avendo svolto la tua missione e predicato ai Niniviti.

Non ho predicato a nessuno, io, però sono piuttosto triste in questo stralcio di vita già avanzata: a questa età mi sento irrisolto, un uomo da nulla, e sto scrivendoti proprio per consultarmi con te che hai avuto un fiero e saggio consiglio dal tuo Signore. Non posso io avere consigli o comandi di quel genere, da nessun signore!

Devo trovare dentro di me le parole, il motto e il modo di rinascere alla fiducia più che ad una fede.

Ho perso anch’io la rotta, a mio modo sono finito in bocca ad un mostro che si chiama melanconia, sfiducia, se non depressione. Però, l’averti incontrato mi ha fatto bene, a modo mio mi sono specchiato. Leggendo di te ho visto la mia bestiaccia e ti dico che la disegnerò, anzi, se tutto va bene, ne farò una piccola storia.

Caro Giona, Jonas, Oannes o uomo pesce, mi sei stato d’aiuto, davvero e ti scriverò ancora, magari chiamandoti Geppetto!”

Gli esegeti odierni concordano nel ritenere il Libro di Giona una “parabola” o un midrash, se non una novella, ricca di contenuto teologico e profetico. La scelta come personaggio principale di un profeta vissuto subito prima della distruzione d’Israele da parte degli assiri, spiega perché Giona si rifiuti inizialmente di predicare loro e sia rattristato dal perdono divino. Se, infatti, Iddio avesse punito gli assiri distruggendoli, Israele si sarebbe salvato. La scelta del personaggio, cioè, è funzionale a sottolineare l’amore illimitato di Dio per tutti gli uomini, tesi fondamentale del libro.

Metto qui alcune immagini che vanno dal mitico dio Oannes alle figure di Giona profeta, tante volte raffigurato in miniature, affreschi e dipinti e anche una moderna incisione di Marc Chagall.

Eremiti, frati ed erranti

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Alla fine degli anni ’60, cioè intorno alla mia età di ventotto, ventinove anni cioè presso i trenta, che secondo me è la stagione propria alla maturità, ero entrato in una crisi profonda con la fede cristiana cattolica in cui ero stato allevato.

Riflettevo parecchio e leggevo libri di storia delle religioni, sentivo forte la necessità di una fede e nello stesso tempo i dubbi mi segnavano, avevo lasciato da poco un comunità cattolica del dissenso in cui tuttavia avevo coltivato fruttuose discussioni e creato salde, forti amicizie.

Sentivo forte ancora il bisogno di un rifugio interiore, e un’aspirazione ad una metafisica, aerea sede dei mei sogni spirituali. Nello stesso tempo avevo dei forti dubbi sul valore, sul colore sul valore e significato della parola spirito. Non mi appagavano affatto varie metafisiche filosofiche moderne o antiche. La parola stessa Metafisica cominciò a disturbarmi, perché andavo immaginando che non avesse più senso se non nei libri di Storia della Filosofia.

Cercai libri, testi su altre religioni, mi avvicinai allo yoga, a certe concezioni del mondo buddhiste che mi hanno dato una visione più congeniale a ciò che sentivo, di cui avevo bisogno, a cui aspiravo, lessi opere di Sri Aurobindo e quasi contemporaneamente presi a disegnare dei frati nella propria cella partendo dal modello figurativo eccellente di Albrecht Dürer con il suo “San Girolamo nello studio”, tracciai a penna e pennino con la china, degli eremiti, degli erranti ( in tutti i sensi), e con questa ricerca artistica, voglio dire “approfondita” mi sembrò di rendermi più libero da pastoie dialettiche e più abile nel disegno. La pratica della concentrazione sui fini tratti che tracciavo, sulle forme che costruivo divenne una sorta di meditazione a cui mi abbandonai e mi servì molto per uscire da una crisi che mi aveva segnato.

Qui per documentare quanto ho scritto pongo alcuni di quei disegni dei primi anni settanta.

Dietro lo specchio, oltre il riflesso… un nuovo romanzo che nasce in un ascensore

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Questa galleria contiene 3 immagini.

Nel 1922, cioè nel 2022, (avevo sbagliato secolo… è una questione subdo/temporale), ho iniziato a dibattermi su di un nuovo testo, una nuova storia che da alcuni mesi ho terminato, corretto, rivisto, ricorretto et cetera.  Avevo una gran voglia di … Continua a leggere

L’UOMO VERDE

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Da qualche tempo ho preso a guardare, osservare e cercare immagini del cosiddetto UOMO VERDE. Mi erano passate davanti agli occhi per anni foto, riproduzioni, su libri e soprattutto sul web di antichi volti umanoidi contornati da fogliami, tralci, rami che uscivano da parti, dagli organi stessi, ma specialmente dalle facce degli uomini verdi o uomini foglia.

Li avevo spesso soltanto considerate forme decorative, curiose, diffuse specialmente in Inghilterra, in Francia e Germania, composte come sculture in vari materiali, specie in pietre e marmi e talora in leghe di metalli. Erano state posate, fissate su soffitti, spesso come chiavi di volta, su muri come sovraporte di edifici religiosi e civili, a volte, anzi spesso, fuse in ottone o in bronzo come maniglie di battenti di grosse porte.

Si sono ripetute queste forme, per secoli, in infinite variazioni, grottesche e non, paurose o quasi comiche, caricaturali di volti difformi o buffi che si adornavano di fogliette e rami partoriti dalle bocche stesse, dai nasi, dagli occhi.

Pare che una delle prime figurazioni di questi singolari emblemi decorativi sia un mosaico bizantino del III° secolo in Asia Minore, ora Turchia, ove un bel volto maschile forse di divinità é adorno di una barba favolosa che va trasformandosi in forme vegetali. Ancora nell’area della prossima Asia, in Iraq, tra le grandiose rovine di Hatra, esiste il notevole volto di un uomo verde del II° secolo, con accanto scritte in aramaico.

Ed il mito del Uomo Verde – The Green Man pare sia ancora vivo in Inghilterra e in Germania ove talora lo si festeggia, mescolato alla figura dell’Uomo Selvatico, coperto di foglie, come il nostro Omo Servadego, in Veneto.

Sono stato colpito davvero da tante di queste figure, quasi più nell’inconscio che dal fascino dell’immagine decorativa. Mi vado chiedendo ora che cosa rappresenta davvero per me questo GREEN MAN, nel profondo, e per scoprirlo vado disegnando e dipingendo da qualche tempo i miei UOMINI VERDI. Penso che mi sia vicina la filosofia e il movimento ambientalista che vedono l’essere umano come una piccola parte, un essere di questa Natura, non come padrone e signore del pianeta Terra. Nel ricercare su questo tema mi impegno e scavo dentro di me abbandonandomi al subcosciente per osservare dopo, finito il lavoro, cosa ne verrà fuori. Passerò poi tra poco a fare figure in tre dimensioni, in materiali leggeri, su questo tema, che poi pubblicherò. E per ora pongo qui alcuni dei miei ultimi lavori sul tema.

Aggiungo ora il 23 dicembre un altro UOMO VERDE che ho disegnato ieri, e di cui sono piuttosto soddisfatto. L’ho voluto disegnare in bianco e nero, a china, come facevo più frequentemente un tempo e ne sono soddisfatto, ne farò altri ancora.

Mario Bianco e altro

In evidenza

Mi chiamo Mario Bianco, i miei dati anagrafici son comunissimi in Italia per cui su Facebook ho deciso di chiamarmi Mario E.R. Bianco, inserendo le iniziali di Ennio e Remo che sono gli altri miei nomi.

Come ovvio tra i tanti, forse 24.000, Mario Bianco che ci sono qui, si contano anche degli scrittori e artisti che hanno scritto & pubblicato di questo e di quello, di odissee nell’ospizio, camere con sviste, via col ventre, manuali per la ricerca di lavoro, zibaldoni di pensieri, poesie, et cetera.

Per cui, per evitare confusioni qui sotto metto un elenco dei miei lavori pubblicati:

1. LA SCATOLA DEL DOTTOR WALLABY. (racconto vincitore del concorso nazionale di Alice.it pubblicato da Marcos y Marcos nel 2001 in antologia dallo stesso titolo)

2. LE PIGNE IN TESTA. Romanzo pubblicato nel 2002 da Michele di Salvo editore.

3. DI RUGGINE IN RUGIADA. Romanzo pubblicato nel 2005 da L’Ambaradan editore. Torino. Finalista al Premio San Vidal.

4. HUMBABA HUWAWA. Romanzo breve pubblicato nel 2012 da Senzapatriaeditore.

5. LETTI A UNDICI PIAZZE. Undici racconti miei e altrettanti di Euro Carello dedicati a 11 piazze di Torino, con 44 mie illustrazioni in bianco e nero

6. L’ALTRA FACCIA DELL’ANGELO O LA MUMMIA TURCA. Romanzo pubblicato nel 2015 da Nerosubianco editore. Cuneo

7.  IL RESTAURATORE DI ROBOT. 5 Racconti di fantascienza. editi nel 2016 da  da Nerosubianco editore. Cuneo

8. LA CAPRA DI CHAGALL. Romanzo fantastico. edito da Miraggi edizioni nel 2019.

9. DICE CHE MIA MAMMA FACEVA LE POSTE. 26 racconti editi da AUGH! Edizioni nel 2021

10. LETTERE DA UN BUGIGATTOLO. Romanzo edito da Golem editore. Torino, nel 2022

Sono coautore di testi, disegni e impaginazione del Carnet de voyage per la circoscrizione 8 della mia città, TORINO CAMMINANDO DI QUA E DI LÀ DAL PO con Anna M.Borgna, Laura Maggiora, Elena Saraceno, Luisa Sartoris,

Sono coautore con Massimo Scaglione di SAN SALVARIO. Saggio dedicato al nostro quartiere torinese, edito da Graphot editore. Torino. 2011.

Alcuni miei racconti sono stati pubblicati in antologie e riviste, come Maltesenarrazioni, o sul web.

Ho illustrato anche il magnifico testo di Barbara Garlaschelli LETTERE DALL’ORLO DEL MONDO edito da All’est dell’equatore

Ho disegnato circa trenta copertine per romanzi o racconti editi da Senzapatria editore.

LETTERE DA UN BUGIGATTOLO

In evidenza

Voglio qui annunciare agli amici e a coloro che mi seguono ovvero agli estimatori dei miei lavori, o anche al passeggero che vuoi per caso vuoi per avventura si trovasse a passare per cotesti lidi o piagge o paraggi o deserti o cantine che:

il mio romanzo LETTERE DA UN BUGIGATTOLO avrà una sua nuova presentazione il prossimo giovedì 14 settembre, alle ore 18, presso l’accogliente e intima Libreria Belleville, di via Nizza 80, in Torino.

e con me a chiacchierarne ci sarà l’ottima editor e amica Chiara Barigelli che mi ha assistito nelle finali cura al mio testo

il mio profilo vuoi bacheca o raccolta su Instagram

In evidenza

Per chi fosse curioso di vedere dei miei lavori su carta di piccolo formato, cioè mediamente di 20×30, consiglio di recarsi sul mio profilo Instagram che ho aperto da pochi giorni ove potrà trovare una serie di tavole eseguite con inchiostri, tempere e acquerelli in tempi recenti. Talora ho allegato accanto un storia che vorrebbe narrare, anche ironicamente, la genesi del lavoro, tanto che sto pensando di trasformare questa recente produzione che ha per tema prevalentemente le isole e l’isolamento ( da tutti patito durante il recente periodo della pandemia) in una raccolta di racconti illustrati, appunto, dalle operette che vado mostrando.

Ecco: https://www.instagram.com/marioe.r.bianco/?hl=it

Le mie “Lettere da un bugigattolo” non vogliono recludersi per una loro propria singolare volontà di esibirsi e di essere lette

Citazione

Infatti per loro superbia vuoi esuberanza spinta si rimostreranno aldilà delle volontà umane

il 18 maggio 2023, alle ore 18,30,

nel Centro Polivalente Circoscrizione

in via Dego 6, in Torino.

E sarà l’esimio poeta Massimo Tosco dell’Agenzia Poetica Torinese

a dialogare con l’autore

e gli amici cari di Perferia Letteraria daranno più che una mano con letture e commenti.

Infatti per loro superbia vuoi esuberanza spinta si rimostreranno aldilà delle volontà umane

il 18 maggio 2023, alle ore 18,30,

nel Centro Polivalente Circoscrizione

in via Dego 6, in Torino.

E sarà l’esimio poeta Massimo Tosco dell’Agenzia Poetica Torinese

a dialogare con l’autore

e gli amici cari di Perferia Letteraria daranno più che una mano con letture e commenti.

Mostra “Isole e isolati”

In evidenza

Faccio notare ovvero ricordo a tutti gli amici e affezionati lettori di questo luogo letterario e artistico in generale che la mia mostra di opere su carta “ISOLE e ISOLATI” presso l’Associazione Culturale TEART di via Giotto 14 in Torino è prolungata fino al 10 maggio 2023

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Presentazione di “Lettere da un bugigattolo”

DIstrazione

il prossimo giovedì 27 aprile 2023 alle ore 18,00 presenteremo il mio ultimo romanzo “Lettere da un bugigattolo” edito da Golem editore presso la vicina & amica biblioteca civica Natalia Ginzburg di via Cesare Lombroso 16 in Torino.

Presenterà il libro il poeta, scrittore e pittore Massimo Tosco dell’Agenzia Poetica Torinese. Con l’appoggio amichevole di Periferia Letteraria, avremo pure con noi l’ottimo attore Gianni Bissaca che leggerà alcuni brani.

ISOLE E ISOLATI

In evidenza

La mia mostra Isole e isolati, che inauguriamo mercoledi 12 aprile alle 17,30 all’Associazione Culturale TEART in via Giotto 14, raccoglie un quarantina di lavori in piccolo formato, mediamente A4, su carta eseguiti con tecniche diverse specialmente con ecoline, inchiostri e acquerelli.

Il titolo Isole e isolati rimanda ad un periodo recente, decisamente doloroso e grave, quello detto del lockdown, in cui i lavori esposti furono in gran parte da me eseguiti. Invero il poter lavorare su, in, con queste operette mi è stato molto utile, di sollievo. Ho usato il tema dell’isola come uno strumento di esplorazione del profondo ed ho cercato di lavorare abbandonandomi alle voci dell’inconscio, in qualche modo il disegnare, dipingere, indagare sullo stesso tema è stato in parte liberatorio, una lampada per far chiarezza, la pittura è stata una leva per sollevarmi e liberarmi dagli umori più oscuri che tutti hanno avvolto in quel recente periodo. Tuttavia i lavori esposti ascrivibili come stile a una sfera surrealista e in parte astratta, a volte mostrano anche un risvolto ironico per chi lo sa cogliere.

Ho inoltre inserito nella mostra alcune tavole mie di un altro periodo, eseguite all’inizio degli anni ‘80, perché lo stesso tema dell’isola e del relativo isolamento mi ha sempre affascinato, non per niente in tempi lontani, negli anni ’60, disegnai a china, eremiti stanti o vagabondi. Tutti questi temi erano e sono collegati. E ciò era quasi naturale

La mostra sarà aperta dal martedì al venerdì dalle 17,00 alle 19,00.

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Il mio nuovo romanzo “Lettere da un bugigattolo” edito da Golem edizioni

In evidenza

A differenza dei miei precedenti scritti questo romanzo ha un risvolto più autobiografico. Benché ogni narrazione sia in fondo autobiografia, anche un saggio, prima rifiutavo di dire di me, lo trovavo un poco narcisista, al massimo potevo ambientare le vicende in luoghi a me cari o conosciuti e creare figure fittizie ispirate a persone reali.

L’ho intitolato: “Lettere da un bugigattolo”, non perché l’abbia scritto in un bugigattolo o in uno stambugio (dico tuttavia che ambedue i termini per indicare un camerino mi piacciono molto, mi suonano bene), ma il mio protagonista forse scrive, o ha scritto le sue missive in un angolo di casa che lui definisce bugigattolo, forse per compiangersi un poco.

È la storia di un ragioniere settantenne, Giuseppe detto Nino, sposato, padre e nonno, pensionato dello Stato, già segretario scolastico, culturalmente preparato, anche per l’enorme influenza che ebbe su di lui un amato mentore ora defunto, un certo professor prof. Arturo Carminati, il grande Arturo…

Per insoddisfazioni, anche paure insorte dopo la deludente partecipazione ad un circolo culturale di quartiere, e antiche sue antiche nebbie mentali, non vede una via d’uscita utile e creativa in questo sprazzo della sua vita inoperosa, prova un grave disagio e si sente depresso.

Per uscire da questo suo pesante stato decide di crearsi, anzi di dedicarsi e di donarsi un‘autoterapia con la scrittura, ovvero si mette a scrivere lettere molto personali, tuttavia virtuali, a persone varie, a volte defunte, o anche a qualche vivente, ma più spesso a personaggi leggendari, storici e letterari, specie di grandi opere storiche o fantastiche come Giona, Pinocchio, Geppetto, Moby Dick, Alice in the Wonderland, lo spaventapasseri e l’uomo di latta, personaggi del Mago di Oz.

Con questi favolosi esseri si confronta, si apre, conversa sapendo che in essi ci si può pure specchiare.

E scrive, scrive molto e decide pure di spedire una lettera materiale, cartacea, ad uno scrittore “vero” che conobbe, per presentargli e spiegargli questo suo nuovo lavoro letterario e introspettivo.

È una storia scritta in uno stile discorsivo, molto libero, a volte ironico, altre drammatico.

Mi auguro incuriosisca, interessi e stimoli riflessioni su cosa può essere la narrativa intesa come lavoro di concentrazione, meditazione e ricerca dentro di sé, quando le parole, i termini, le costruzioni narrative diventano strumenti di scavo, e pennelli e ramazze per scoprire i lati bui delle fondamenta personali, gli angoli oscuri e le cantine infangate, i muri di sostegno, le sostruzioni della propria personalità e quindi aiutino a riflettere sempre più a fondo, trovare noccioli e tesori singolari interiori, e anche altre preziose carabattole psichiche sepolte.

Ringrazio naturalmente l’editore Giancarlo Caselli, di Golem edizioni, che mi ha mostrato subito fiducia incondizionata e l’ottima editor Chiara Barigelli che mi ha molto aiutato per ripulire il testo.

LETTERE DA UN BUGIGATTOLO

In evidenza

Poco dopo aver terminato questo nuovo mio romanzo, e averlo corretto e ricorretto, gli ho affibbiato un titolo che può sembrare buffo, perché bugigattolo è un termine desueto e strambo, però mi piace, mi è sempre andato a genio.

Il bugigattolo mi ricorda un luogo piccolo, uno stanzino un po’ polveroso, che si può anche definire stambugio, ma al contrario il mio protagonista che scrive le sue strane missive a personaggi più che altro vissuti nella fantasia di famosi scrittori, non sta davanti ad un pc in uno stambugio, in un camerino o cameretta, sta in un suo arioso studiolo che condivide con la moglie nel suo appartamento.

Ho sussurrato questo mio titolo ad un vecchio amico scrittore che si è fatta una gran risata, pure sua moglie, ch’è donna molto spiritosa ha detto che era un titolo davvero simpatico e gradevole.

Però, mi sono detto, bisogna vedere se piace ad un eventuale editore…

È piaciuto davvero! Ho presentato il mio manufatto manoscritto al responsabile della editrice Golem che dopo qualche giorno ha accettato il testo, il mio romanzo, pure con questo titolo bislacco. Qui allego il volantino di promozione per questo libro che uscirà a marzo.


























					

UN ROMANZO DAL TITOLO “LETTERE DA UN BUGIGATTOLO”

In evidenza

Ho terminato di correggere il mio nuovo romanzo cominciato nel luglio dell’anno scorso.

Letto riletto corretto varie volte.

A differenza dei miei precedenti scritti ha un lato un poco più autobiografico. Benché ogni scritto sia in fondo autobiografico, anche un saggio, prima rifiutavo di dire di me in narrativa, lo trovavo un poco narcisista, al massimo potevo ambientare le vicende in luoghi a me cari o conosciuti e creare figure fittizie ispirate a persone vere, cioè esistenti o esistite.

Ho sentito un bisogno psicologico profondo di fare riferimento, in parte, a ambienti e individui viventi, a vicende mie vissute

All’inizio il testo era nato come un racconto, poi si è esteso. Ho preso gusto a scrivere lettere che il mio protagonista crea, elabora, distilla.

L’ho intitolato: “Lettere da un bugigattolo”

È la storia di un ragioniere settantenne, maritato, padre e nonno, pensionato dello Stato, già segretario scolastico, culturalmente preparato, anche per l’enorme influenza che ebbe su di lui un amato mentore ora defunto.

Per insoddisfazioni, delusioni, nebbie fosche nella mente non vede una via d’uscita utile e creativa in questo sprazzo della sua vita, e si sente depresso.

Per uscire da questo suo pesante stato decide di crearsi, anzi di dedicarsi e donarsi un”autoterapia” con la scrittura, narrando, ovvero si mette a scrivere lettere molto personali, tuttavia virtuali, a persone varie, già esistite, morte o viventi, o più spesso a personaggi storici e letterari, specie di grandi opere fantastiche come Giona, Pinocchio, Geppetto, Moby Dick, Alice in the Wonderland, lo spaventapasseri e l’uomo di latta. Con questi favolosi esseri si confronta, conversa sapendo che in essi ci si può pure specchiare.

E scrive, scrive parecchio e si decide pure di spedire un lettera materiale, cartacea, ad uno scrittore “vero” che conobbe, per presentargli e spiegargli questo suo lavoro e sentire il suo parere competente.

È una storia scritta in uno stile discorsivo, molto libero, a volte ironico, altre drammatico.

Spero trovi un editore e incuriosisca, interessi e piaccia. E anche stimoli riflessioni su cosa può essere la narrativa intesa come lavoro di scavo dentro di sé, quando le parole, i termini, le costruzioni, la trama diventano pale e picconi e pennelli e ramazze per scoprire le fondamenta personali, gli angoli oscuri e le cantine infangate, i muri di sostegno, le sostruzioni e quindi per riflettere più a fondo, trovare noccioli e tesori singolari, le proprie preziose carabattole psichiche sepolte.

Magari in un bugigattolo della propria persona, poco esplorato.

Episodi minori della vita del capitano Achab

In evidenza

Una trentina di anni fa, dopo aver riletto “Moby Dick o la Balena” di Melville, e aver riflettuto e fantasticato parecchio sulle vite possibili e impossibili del capitano Ahab, presi a inventarmi episodi non narrati da Melville, magari surreali o folli, della vita del suddetto marinaio, impavido cacciatore di balene e capogli.

Per meglio rendere tangibili le mie fantasie ho preso fogli e inchiostro di china e penna e pennini e mi sono messo a disegnare. Sotto ogni tavola ho scritto poi un commento, a volte con pretese poetiche e con un filo di ironia. Non sapevo esattamente per quale motivo facevo questa operazione di aggiunta abusiva e revisione del capolavoro che tanto ho amato e amo. Col tempo poi ci ho riflettuto: penso di aver in qualche modo voluto smitizzare l’eroe, in qualche modo renderlo più tangibile umanamente, meno duro, più sfumato forse più bizzarro ma più amabile. E così dopo che delle care amiche mi hanno tradotto negli anni le didascalie in tedesco e francese e non aver raggiunto nessun risultato editoriale, posto ovvero pongo qui sul mio sito blog questa storia, queste tavole a cui sono molto affezionato e che spero interessino qualche passeggero nel mare sempre mosso del web.

Un mio racconto: Sergio l’uomo non che andava in nessun posto

In evidenza

dal mio libro, la raccolta di racconti “DICE CHE MIA MAMMA FACEVA LE POSTE” edito da Augh edizioni nel settembre 2021.

È la storia di un tale che ho intravisto una volta, tanti anni fa, che mi aveva molto colpito, e me lo sono ricostruito da poche parole udite da lui, una persona estremamente schiva, che viveva in una ex portineria ove aveva passato l’infanzia con sua madre…

sotto potete trovare il link del filmato dove vi leggo il racconto di Sergio

https://www.facebook.com/bianco.e.mario/videos/2088420444643263

Isola di Parole

In evidenza

Ho scritto nei mesi scorsi, stando la situazione, anche dolorosa, di emergenza con isolamento totale o parziale una serie di racconti poco verosimili o in parte verisimili che hanno soggetto, traggono lo spunto dal vocabolo isola insula, da cui isolamento, e via dicendo.

Ecco: questo è il più folle dei racconti che dovrebbe spostare il lettore in un ambiente straniante. Ne sono abbastanza soddisfatto.

L’audace blog “Malgrado le mosche” che ha già pubblicato altri miei pezzi l’ha ora reso visibile e leggibile con un’illustrazione di Veronica La Greca:

DICE CHE MIA MAMMA FACEVA LE POSTE

In evidenza

È finalmente uscito o uscita la mia raccolta di racconti

DICE CHE MIA MAMMA FACEVA LE POSTE edito da AUGH Edizioni, del gruppo Utterson di Viterbo.

Sono racconti che ho scritto circa dieci anni fa, sotto il titolo di Psicopatologie locali, intestazione che conservavo solo per me. Tuttavia pur sentendoli sempre vicini mi turbano ancora un poco perché i temi trattati, i personaggi delineati a volte sono spesso molesti o importuni o sofferenti di malori mentali. Ci si aggira tra scene dolorose o tra scenari immaginari partoriti da menti turbate. Intendevo anche con questi mei scritti gettare una mia luce su persone sofferenti che vivono in modo patologico situazioni che per molti sono “normali”, perché i soggetti delle storie, i personaggi narrati, sono sofferenti, poveracci, malati mentali, pìcari, visionari, ladri o truffatori di mezza tacca, o vittime di violenze familiari e non. Persone emarginate, cioè che vivono in quel margine, detto zona d’ombra, di cui si evita di parlare, se ne dice il meno possibile, eccetto il caso in cui diventino protagoniste di fatti di cronaca nera. Era da tempo che attendevo questa edizione perché la sua comparsa doveva avvenire da circa un anno e mezzo, in occasione del Salone del libro di Torino del 2020, ma l’apparizione svanì, perché il Salone non si aprì per la presente pandemia. Ho corrotto Il linguaggio con dialettismi, neologismi uditi dal vero per rendere più credibili, incisive le scene e farle penetrare negli angoli remoti del sentire e intendere del lettore

Ho scritto queste storie, per l’interesse, e anche per l’empatia, la compassione che ho sempre sentito forte per questo mondo di abbandonati, di gente lesa dalla natura medesima, allontanati dalla vita sociale, ignorati sovente da qualsiasi aiuto pubblico o privato.

Talora ho virato su toni amaramente ironici o grotteschi anche per spostare il taglio dello sguardo sul lato tuttavia buffo che alcuni di questi personaggi possono presentare.

Ho accompagnato molte storie con una mia illustrazione, non ne potevo fare a meno. Il vedere e poi il disegnare era ed è tutt’uno col narrare.

La prima presentazione si terra alla Libreria Trebisonda di Torino, giovedì 16 settembre 2021, alle ore 18,30, e mi accompagnerà nei discorsi sui racconti il mio caro amico Piergianni Curti poeta e narratore, nonché matematico.

Altre isole possibili: impossibili, fantasticate, perdute…

In evidenza

Sto per terminare una raccolta di racconti ambientati in isole.

Quasi come ovvia conseguenza della pandemia che ha ci costretto, nei momenti più pericolosi e bui, all’isolamento, a ritirarci nelle proprie isole abitative, e spesso in quelle mentali le quali hanno preso a fermentare emettendo talvolta pessimi umori, procurando malanni psichici.

Ho cercato di rimediare ai guai presenti, come al solito, prima disegnando, dipingendo e poi scrivendo e vado ancora avanti alla ricerca del segreto dell’isola che non c’è, se non nella mia mente, e vola e scivola d’ala e strabicca e ammara, anche amara.

Isolamento & isole, acquerelli, disegni e racconti sul tema

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Dal marzo del 2020, quando qui in Italia è diventato chiaro ed evidente il fenomeno che ci faceva trovare coinvolti, come il resto del mondo in una pandemia spaventosa che produceva panico, disastri, tante morti e crisi sanitarie generali come non si vedevano dal tempo della cosiddetta “febbre spagnola” che imperversò verso la fine della prima guerra mondiale fino al 1920, come tutti ho provato uno scoramento notevolissimo e come autoterapia mentale, come feci altre volte, mi sono dedicato molto al disegno, all’illustrazione su carta, più che alla pittura su tela o ai miei lavori polimaterici.

All’isolamento e al distanziamento personale imposto dalle autorità sanitarie, con il cosiddetto lockdown o chiavarda, ho cercato di porre rimedio interiore impegnandomi su temi suggeriti dalle parole stesse: isolamento da isola, e la tragedia epidemica come mostro, monstrum, evento o essere spaventoso, terribile. Quindi ho lavorato su soggetti suggeritimi anche anche dal mito, dal mondo antico. Ho disegnato mostri primordiali, improbabili, surreali e quasi contemporaneamente ho iniziato una serie di racconti che devo ancora terminare dedicata al soggetto isola e anche a personaggi che scelgono di vivere isolati, magari in un’isola, o sono costretti, o vogliono scegliere deliberatamente l’isolamento, un distacco dalla comunità degli umani.

Qui pongo ad esempio alcuni disegni, acquerelli, lavori ad inchiostri lavorati nel 2020 e nel 2021. Essi sono in gran parte in stile grottesco surreale con una ispirazione ad un possibile verosimile, non astratto/simbolici, perché quando lavoro a temi di queste genere, più illustrativi, orecchio ancora ad un mondo forse reale, tuttavia molto difforme

Mostra di Anna Maria Borgna al TEART dal 7 al 28 maggio 2021

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Anna M. Borgna
Paper moon

Era facile seguire una strada tracciata e già percorsa,
era facile lasciarsi andare a gesti e materiali consueti
nuotare in acque tranquille e amiche
col prediletto acquerello: trasparente, luminoso e delicato.
Ma avevo l’urgenza di voltare pagina
abbandonare il sentiero agevole per un viaggio insolito
incerto, forse pietroso e ancora sconosciuto
che eccitava l’immaginazione,
mi metteva alla prova del fare
senza ancora ravvisare dove mi avrebbe condotta.

Al centro sempre l’amata carta, maneggevole e assorbente
di grana e spessore diversi, fatta a mano,
ma in modo nuovo, come materia spessa e intricata.
Ho sperimentato i materiali in modo bruto e istintivo,
manipolando una scorza ruvida e plastica che racconta
spazi e paesaggi interiori o sognati, abissali o astrali.

Un cammino dedicato a carta e cartone, alla loro leggerezza,

non solo nelle opere,
ma anche nelle cornici che Mario ha inventato e realizzato per me con un riuso creativo originale.

A proposito della mostra Stracci al TEART 7-28 maggio 2021

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Nella seconda parte del 2019 mi è venuto spontaneo di dipingere una forma sgusciata dal subconscio, indefinibile mentre andavo formandola sulla tela. Sul finire del lavoro, sono rimasto parecchio perplesso e mi sono detto: Ho dipinto uno straccio, uno straccio appeso a un chiodo. Riflettendo anche sulla mia età avanzata, ho pensato: Mi sono fatto una sorta di autoritratto…

Poi ho ricordato che la mia compagna Anna, nei primi tempi della nostra storia mi dedicò un suo significativo e bellissimo disegno a china, intitolato Gli stracci diventano altro, ove un cencio appeso alla maniglia di una porta pareva una sorta di ritratto.

Quelle parole mi sono rimaste incise dentro per cui recentemente ho continuato a lavorare con convinzione sul tema degli stracci.

In uno di quei giorni andavo dicendo al mio amico Romano:

Sto dipingendo degli stracci… Lui ridendo ha risposto: Stai facendo come lo zio Antonio! Con questo nome ricordava suo zio, l’ottimo pittore Antonio Testa, che considero mio maestro in pectore; anche lui, pur rifiutando l’Arte astratta, da anziano, andava dipingendo straordinari stracci, del tutto informali.

Di fatto la parola straccio è soltanto un pretesto.

Sono partito da un’ipotetica forma di cencio vagante in angoli della mia mente per fare una ricerca astratto simbolica, come è mio solito, abbandonandomi all’interiorità, per arrivare a creare opere con strutture che prima non immaginavo. È stato un combattimento per superare il prototipo, per cercare e scoprire altro che si celava e si nasconde sotto la finzione di straccio. Un osservatore attento e sensibile può vedervi anche forme che non ho nemmeno immaginato, come io stesso a volte vedo altro in mie vecchie figurazioni.