A casa mia la penna per scrivere tutti la dicevano in dialetto “piûma”.
Ma non tratterò io di penne di gallina né d’oca né di qualsivoglia volatile di cui parla pure il Petrarca quando dice del coltellino e della penna ben temprata; questo perché da adolescente cercai di costruirmi penne avicole ma con risultati indecenti.
Passerò subito alla penna stilografica Waterman di mio padre con clip o clips d’oro che sempre gli invidiavo; gliela sottraevo di nascosto scopo sperimento e concorrenza, quindi riuscivo a macchiarmi in maniera turpe mani, faccia, braccia, grembiule (quello da scolaretto) gambe col risultato di ricevere scapaccioni da ambedue i genitori.
Per cui mai amai le penne stilografiche con le loro pompette o molli vesciche interiori che si bucavano, perdevano, si appiccicavano vermicolarmente: oggetti terribili, molte di esse erano belle di fuori e marce di dentro, tipo certi umani. Per tutti gli anni che le usai ci combattei, le smontai, le riparai, le modificai ottenendo sempre e comunque di ottenere arti e vestiti macchiati di blu stilografico, marca Waterman o Pelikan che scrive blu ma diventa nero.
Per questa mia perenne sozzura da indomabile contendente con le penne fui evitato da molte fanciulle piacenti ed anche per questo le odio ( le penne stilografiche).
Poi arrivarono quelle con la cartuccia sostituibile, tipo Parker o Aurora e altre americane, inglesi, francesi, tedesche, mentre molti passavano alle biro che furono poi accettate (contro voglia) dalle autorità scolastiche.
Non mi sono mai convertito alle penne a sfera del signor Biro, le uso in extrema ratio, per fare due conti della spesa; per qualsiasi altro serio lavoro mi servo della matita o pennefeltro, che cominciai a conoscere circa 40 anni fa e da allora non le ho più abbandonate.
Ma questa è tutta una accessoria premessa perché per me la penna vera ed unica è quella con cannuccia e pennino in acciaio, la sola degna di chiamarsi penna, quella che si abbevera in dosi volute dal proprietario nell’apposito calamaio, quella che manipolata con sapienza e dosaggio di gesto da tratti sottili, finissimi o grandi, spessi, modulati. Essa richiede soste per intingerla nelle quali lo scrivano può soffermarsi un attimo a riflettere sulla propria opera di ingegno, invece di buttare giù a man salva.
La penna col pennino richiede cure, esami dello stato di pulizia, cambio e scelta del pennino stesso a seconda degli usi che possono essere di grafica artistica o di scrittura, e pure scelta dell’inchiostro appropriato.
Una volta esisteva la “bella scrittura” o calligrafia e anche i professori di questa insigne materia che insegnavano l’aldino, l’inglese, il corsivo, il gotico, la tondina: io posseggo ancora pennini in acciaio specifici per alcune tipi di grafie in cui mia madre era abilissima.
La calligrafia è parente stretta del disegno e viene praticata da pochi amatori: i pennini per la calligrafia erano di tante marche, materiali, fogge, tagli singolari, punte tagliate di sbieco, dritte, pennini panciuti, gonfi, sottili, regali con corona, a foggia di Mole antonelliana o tour Eiffel, a forma di mano con dito proteso, a pesce ed aghiformi per tratti finissimi cioè quelli che prediligo io per il disegno: essi sono gli Heinze tedeschi in acciaio blu numerati dal più duro al più morbido. Buoni pure erano i Perry inglesi di augusto lignaggio.
Ho una minima scorta di Heinze acquistata anni fa presso la premiata ditta Smeraldi, un tempo mia emerita fornitrice di ogni sorta di carta ed arnese grafico. Il signori Smeraldi, padre e figlio compassatissimi, mi presentavano su di un cartone rivestito in carta velluto rossa un campionario di almeno trenta pennini diversi, ad uso artistico, non calligrafia; questi begli oggettini stavano applicati al cartone tramite un elastico e si potevano esaminare anche con la lente; era possibile ordinarne uno, due, quattro, a piacer: anche una scatolina.
Per le cannucce non sto ad andare per il sottile: ne ho tre o quattro boeme acquistate in un mercatino, altre tre vecchie come il cucco, una di plastica orrenda rosa e nera, un’altra me la sono fatta io con i bastoncini cinesi.
Degli inchiostri taccio che sarebbe una enciclopedia: io per disegnare uso dell’inchiostro di China, cioè di Cina, Pelikan, qualche volta mi faccio da me inchiostro da bastoncino/tavoletta cinese di china secca sfregato sulla vaschetta di ardesia poi ci intingo pennelli cinesi o penne fatte di bambù (altro capitolo: antenate della penna).
Il passaggio dalla cannuccia con il suo pennino all’uso del pennello per scrivere è breve o pare. Ma con questo passaggio si apre una grande porta verso tutta l’Arte della Calligrafia orientale, cinese e giapponese che è mondo antico, estetico, filosofico e religioso, sterminato come il Gobi e il Taklamakan.
Io mi limito ai miei pennini e vi assicuro che l’arte di misurare la propria forza ed i proprio gesto con questo minuscolo e caro oggetto esercita la pazienza e la concentrazione; accostare, accumulare tratteggi neri o colorati, fini e spessi immette in un mondo silenzioso, leggero ove tutti i pensieri prima si ammorbidiscono e poi si sciolgono.
Restano quei tratti sulla carta, tanto effimeri come il loro supporto, ma specchio di uno stato d’animo e di coscienza.